PISARI E SPAGGHIARI

 


Foto di Piero Agliata

Pisari

Nella lavorazione del grano, la trebbiatura serviva a separare i chicchi dallo stelo, che invece veniva triturato, divenendo paglia e foraggio per gli animali.

A questo scopo era innanzitutto fondamentale la preparazione dell'aria (dal latino area). 

Andava scelto un luogo il più possibile pianeggiante, ma soprattutto esposto ai venti. Si liberava uno spazio tondo, che veniva pulito con zappuni e scupa, compattato e ammorbidito con acqua. Poi vi si spargeva un po' di paglia e si disponevano i covoni (i gregni) a barriera tutt'intorno.



Pellizzara (Petralia Soprana) anni '60
Archivio dr A. Nasca

Ai margini dell'aia, veniva costruita a loggia, un riparo temporaneo per tenere in fresco l'acqua e le provviste della giornata, e all'ombra i membri più piccoli della famiglia, per il resto interamente occupata nell'attività di lavorazione e pulitura del raccolto.

A questo punto le spighe venivano sparpagliate sul terreno e due muli appaiati guidati dal contadino a girare in tondo, le calpestavano ripetutamente, facendone così uscire i chicchi, da dove il nome di pisata.

Il contadino entrava nell’aia munito di zotta (frusta) e con l’incoraggiamento di un bicchiere di vino, iniziava a far girare le mule con una tipica cantilena.

Al riguardo, nel 1979 Marcello Lo Mauro ha raccolto a Saccù la testimonianza dell'anziano Pietro Velardi. 
Dopo il solito avvio con: Lodamu e ringraziamu u Santissimu Sacramientu, Viva di lu Carminu Diu e Maria, con voce allegra, si proseguiva con una interminabile litania di invocazioni che serviva a dare incoraggiamento ai presenti, così come a dare un ritmo costante agli animali. 


Foto di Francesco Lo Mauro

Eccone il testo, nella versione in uso a Saccù, improntata, come sempre a profonda religiosità, ma talvolta condita di sana scanzonatezza:

Attenti e vota
E chi fu bella sta vutata
viva Diu e l'Ammaculata

E l'Ammaculata sia
viva lu nomi di la Vergini Maria

Grapi l'aricchi bell'animali
che dobbiamo lodari a Diu

N'ama a gghiri a lu viantu e alu riviantu
viva Diu lu Sacramiantu

Lodamulu spissu
u Santissimu Crucifissu

Lodamu a tutti banni 
viva la Madunnuza di Giblimanni.

Cu natra uci xata
viva la Madunnuzza di l'Atu

Sta parola ci la vuagghiu
Viva la Madunnuzza di l'Ugghiu.

Lodamu ogni via
viva la Madunnuzza di Tallavia

Lodamu a Santa Rusulia
chi nni scanza di mala via.

Lodamu a San Vicianzu Ferrara
chi nni scanza di fiarri di muli

Lodamu a San Larianzu
picca palla e assai frumiantu.

Lodamu a San Nicola 
chi nni scanza di iri cu culu di fora.

Lodamu a San Vittorio 
chi nni scanza di esseri farfoliu.

Santu Antoninu voza voza
quannu si sfurria la so santa crozza
tutti li diavuli scrozza.

Quantu voti Diu amu lodatu
l'armuzzi santi amu rifriscatu.

Acchiana e scinni 'nquantu 'nquantu
ca truavu a Maria cu l'angilu santu.

E l'angilu ci diciva a Maria 
viva Gesù e viva a Maria.

Tri voti si loda lu Signuri
viva la Trinità e lu Santu Sarvaturi.

Tri furriunedda di lu viantu
che n'amm'agghiri a lu riviantu
viva la Trinità e lu Santu Sacramientu.

Cu ringrazia sia la Madunnuzza di la Grazia
che na ddari u tiampu buanu e la saluti,

a lu vistu beddi armali.

Il tutto veniva ripetuto almeno tre volte, tre votate erano necessarie per avere una buona trebbiatura.


Foto di Piero Agliata

Spagghiari (o spallari)

Per sottolineare l'importanza fondamentale del vento al momento della separazione del grano dalla pula, a Petralia Sottana si diceva: U massaru di l’ària è un vìentu.



Questa operazione, che chiudeva la giornata, si svolgeva nel tardo pomeriggio, lanciando in aria il prodotto battuto con il tridente di legno (inizialmente) e la pala (in ultimo). La paglia, essendo più leggera, ricadeva ai bordi dell’aia, mentre i semi, più pesanti, cadevano direttamente sotto per terra.


Archivio Ernesto Messineo


Peppino La Placa rammenta, nella rappresentazione A Spartenza di l'urtima aria, che a Raffo, in caso di minaccia di tempesta, si usava un rituale scaramantico particolare: quello del taglio della tempesta. Con la falce tenuta nella mano sinistra, un anziano depositario di questo sapere, inginocchiato fronte al vento, tracciava in aria tre croci, pronunciando questa orazione: Santangelo, Santangelo, tri nelli viu viniri, una di acqua, una di vientu e una di grànnili chini mannàtili a ddà banna u munnu, dunni 'un na faccia nné suli, nné lluna e nuddu gaddu si senti cantari. Dopo di che, infiggeva la falce per terra.


Archivio Ernesto Messineo

Cèrniri

Per completare il lavoro, si passava il grano no crivu pu frummientual fine di eliminare le ultime impurità.
Il verbo cèrniri, da dove cirnuta, potrebbe essere liberamente tradotto come vagliare o selezionare, e deriva dal latino, mentre dal verbo greco κρίνω (krino), che ha significato analogo, deriva il nome dialettale del setaccio, u crivu.
criva erano costruiti con maglie di diversa dimensione in funzione del prodotto da trattare.
Per il grano o l'orzo ciò che cadeva dal setaccio era chiamato scagghiu ed era destinato all'alimentazione degli animali da cortile.
La pula (spogghia) delle ariste (resche) e delle altre impurità leggere, veniva riunita al centro del crivu con un movimento rotatorio e poi eliminata manualmente.

Il prodotto così ripulito costituiva u munsieddu (il cumulo) e l'aia diveniva il luogo della spartenza fra mezzadro e padrone, secondo le ben note proporzioni oggetto di lotte contadine, per la conquista di una percentuale superiore. Nel corso di questa operazione la persona che misurava il prodotto (in tumoli) doveva avere la fiducia di entrambe le parti.

Era il momento in cui si presentavano anche i monaci di cerca, passando da un'aia all'altra, che in cambio di un pugno di olive (non più di 3 o 4) una sarda salata e un santino, ricevevano un'offerta in frumento.
 

Pala e tridente


Poi negli anni '50 si giunse alla trebbiatura meccanica.

Ernesto Messineo rammenta che per poterla introdurre in sostituzione d'a pisata nell'aria, si dovettero vincere sostenute resistenze soprattutto da parte degli anziani, che sospettavano frodi e si aggiravano guardinghi attorno alla trebbia per capire se parte del grano potesse prendere altre vie (occulte) oltre a quelle visibili., e pretendendo, alla fine di ciascun lotto di lavorazione, la pulizia della macchina (crivelli ed elevatori) per assicurarsi che ogni chicco di grano venisse recuperato.

Serviva comunque l'aiuto di varie persone oltre a coloro che facevano funzionare la trebbiatrice: c'era chi trasportava i covoni e mettendosi in fila alimentava la macchina, e chi procedeva alla misurazione e all'insaccatura del grano, lavoro pesante e di responsabilità. E anche quelle erano giornate interminabili di lavoro sino a notte, in cui gli aiutanti intervenuti da fuori, fino al termine delle operazioni, dovevano dormire sul posto, spesso sotto il cielo stellato, lavandosi in qualche pozzo o nei bidoni d'acqua, e mangiando a turno per non interrompere le operazioni, il tutto per un guadagno molto magro.


La trebbiatrice all'opera a Canneti (Enna) negli anni '50


Una rievocazione degli aspetti sociali e del peculiare pathos di quel periodo dell'anno agricolo ci viene fornita da Calogero d'Alberti, di Casa dei Salici a Zorba (Petralia Soprana):

La trebbiatura è il momento culminante della stagione, il momento in cui si definisce il successo o il fallimento delle scelte fatte. Ovunque veniva salutato con feste e balli e rappresentava la gioia ed il sollievo di avere il raccolto a casa, al riparo, finalmente. 

Ma la tecnica ha rivoluzionato tutto, non gradualmente ma di botto, cancellando un intero sistema di modi e di riti.

L’antica trebbiatura era un momento sociale, i posti per le aie, scelti con cura, erano comuni, sia che fossero di proprietà demaniale che privati, erano i posti “giusti" quindi di tutti. E tutti partecipavano con un meccanismo antico di solidarietà interessata. Su tutto incombeva la paura dei primi temporali estivi e quindi bisognava far molto presto e c’era bisogno di aiuto, di molte braccia, quante più possibile.


La trebbiatura a Petralia Sottana negli anni '40
(foto tratta da Giglio di Roccia n.1/1942)

Si cominciava dai terreni più a valle, dove il grano matura prima, e i proprietari dei terreni a monte, con le loro famiglie e le bestie da soma, andavano ad aiutare, per solidarietà certo, ma anche per meritare l’aiuto di ritorno, quando fosse venuto il loro turno di trebbiare.

Intorno all’aia tutti avevano un ruolo, il meccanismo totalmente rodato, scandito dal canto del conduttore dei muli che trebbiavano il grano “... oh cchì fu bella sta vutata, viva Diu e l’Immacolata, ora la facimu arria, viva la Vergine Maria...” . Chi portava i covoni, chi girava il grano sotto gli zoccoli dei muli, chi raccoglieva le spighe disperse e in tutti c’era pathos e partecipazione.

Poi l’attesa del vento “giusto” per separare il grano dalla paglia ed ancora i canti degli uomini e delle donne; nel cumulo sempre meno paglia, sempre più grano... Il caldo afoso dell’agosto siciliano, le cicale frenetiche, i bummuli pieni d’acqua, frigoriferi a traspirazione, appesi agli scarni alberi...



Foto di Piero Agliata

Gli sguardi dei capifamiglia che misuravano quanto pesavano le scelte fatte: la semenza, il momento della semina e le condizioni subite: tanto per il barone, tanto per la chiesa, tanto per i debiti da saldare ... e già sapevano come sarebbe stato l’inverno, buonu o tintu.

Con le nuvole all’orizzonte arrivava la magia, il ricorso alle forze sconosciute e presenti.

"Arriva la tempesta", diceva uno, "no, vota o largudiceva un altro, e la tensione saliva; gli uomini cominciavano a discutere sempre più animatamente e sempre più si vedeva la classifica dell’autorevolezza, man mano che il pericolo si avvicinava, dentro quelle nuvole nere spesso solcate da fulmini e scosse dai tuoni. I meno qualificati tacevano: si formava il consiglio dei saggi, cui partecipava di diritto il proprietario del grano che si stava trebbiando in quel momento. 

La questione era una, e non da poco, era una scelta grave. Con la fronte corrugata e gli occhi alla tempesta si doveva decidere se scomodare gli Dei, le forze della natura con cui si poteva interagire evidentemente, ma non alla leggera. Chiamare il tagliatore di tempeste o no? Questo il dilemma e poi la scelta. Il rito, carico di tensione, dell’uomo che parla con le nuvole. Poi l’epilogo, la buona o cattiva sorte...

E così di seguito sino all’ultima aia e all’ultimo terreno.


Trebbiatrice Artemio Bubba
Foto tratta dalla pagina FB della Sagra del Grano di Pianello

Poi arrivò la trebbia, un mostro rumoroso e polveroso, che sostituì i muli nella trebbiatura, rendendo tutto più veloce. Cambiarono dopo millenni i tempi, ma il mondo attorno non cambiò molto, ancora c’era bisogno di aiuto, ancora i luoghi erano comuni e tutti vedevano tutto, insieme. Il rito comune continuava.

Infine, l'ultimo passaggio, la mietitrebbia, un uomo alla guida, il proprietario che guarda, da solo, e basta.


Foto Sergio Rojo


Il seguito al post U BURGIU...


Ringraziamenti (in ordine alfabetico) a Piero Agliata, Calogero D'Alberti, Domenico Gulino, Peppino La Placa, Giancarlo Lo Mauro e Ernesto Messineo.


Cenni bibliografici

Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino, Palermo 1789

Francesco Tropea, Etnofonia madonita, in "Giglio di Roccia", autunno-inverno 1960

Giuseppe La Placa, Un mondo che scompare, nel bacino dell'Alto Salso, Comune di Petralia Soprana, 1994

Roberto Sottile, Massimo Genchi, Lessico della cultura dialettale delle Madonie. 2. Voci di saggio, Centro Studi Filologici 2011

Giuseppe La Placa, "Glossario" in Un mondo che scompare volume II, Edizioni Arianna 2013

Influenza delle lingue sul dialetto

Giuseppe Puma, Arti e Mestieri, U Viddanu, 2012



Mietitrebbia Breda AM 60

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