IROSA




Nel 2014, per accedere al territorio delle Petralie, è stato inaugurato sull'autostrada Palermo-Catania uno svincolo che porta il nome melodioso di IROSA.
Il territorio di Irosa, che adesso appartiene ai Comuni di Petralia Sottana e Resuttano, è storicamente collegato a Petralia Soprana sia perché anticamente ne dipendeva dal punto di vista amministrativo, sia perché gran parte delle sue terre sono divenute nell'800 di proprietà dei Pottino, famiglia nobile che in quel secolo a Petralia Soprana era dominante.
La storia di Irosa è molto antica. Nel lontano 1209 esistevano in quella zona due feudi di nome arabo: "Rachilebbi" detto anche Rachalkidep, e  "Bassafac", detto anche "Rassafica" o "Raxafica" (1). La prima parte dei due nomi (dall'arabo rahl o rahàl, casale, villaggio) evoca centri abitati ivi esistenti in passato.


Stemma dei Ventimiglia

Entrambi i feudi appartenevano ai Ventimiglia e vennero trasferiti alla contea di Collesano nel 1396 dal conte Antonio, a favore di suo fratello Francesco, detto Don Cicco, ai cui discendenti il feudo rimase sino al 1608 (2) (4).
Nel 1509 Giovan Luca Barberi, riferendo al re di Spagna sulla situazione dei feudi siciliani, menzionava questi due feudi, fra quelli appartenenti al territorio di "Petralia Superior" (3) insieme a quello di Rasuctani, cioè di Resuttano (anche di questo nome la radice indica un antico casale arabo), comprensivo dell'omonimo castello
Successivamente si distingueranno Alberì e Ritrasi, mentre a Resuttano, divenuto sede di principato, il principe Giuseppe Di Napoli nel 1627 fonderà l'omonimo centro abitato. Resuttano rimarrà comunque sotto la giurisdizione ecclesiastica dell'Arcipretura di Petralia Soprana sino al 1840 (7)

La parte delle terre rimanente da questa divisione costituì il feudo di "Irosa", che in qualche atto troviamo indicato anche come GrossaGirrosa, Giarrosa, oppure Irrosa. L'origine del nome non ci è nota. Nel 1700-1704 i giurati delle Petralie (Sottana e Soprana), attestavano che Irosa appartenesse al territorio dell'Università (cioè dell'ente comunale) di Petralia Soprana (5)
Quanto alla proprietà del feudo, nel 1608 venne venduto l'8.3.1608 dai Ventimiglia ai La Farina di Polizzi Generosa, per poi passare alla famiglia Percolla, ed essere infine acquistato nel 1671 da una famiglia nobiliare ligure, i Pescia (4).


Stemma dei Crovara Pescia

Al feudo era collegato in origine il titolo di barone di Irosa. Nel 1696 Carlo Secondo, Re di Castiglia ed Aragona, lo elevò a marchesato, e si succedettero svariati marchesi dall'identico nome di Gervasio Pescia, sino al quarto del nome, seguiti poi da altri esponenti della famiglia Crovara Pescia. 
Dopo l'eversione della feudalità, nel 1812, e dopo l'acquisizione di gran parte delle terre del feudo da parte di Michele Niccolò Pottino, il titolo di marchese di Irosa venne attribuito a lui nel 1899 (7). 


Lapide di Gaetano Pottino Marchese di Irosa
Chiesa SS. Salvatore Petralia Soprana
Foto Samuele Gulino

Si trattava di un feudo di valore, perché attraversato dal fiume Imera Meridionale.
In una pianta topografica dei primi del 1800 si fa menzione della "Trazzera del passo di Irrosa(8).



Il blasone della famiglia Pottino
ad Irosa

Rappresentativa della lunga lotta per la sopravvivenza sostenuta sin dall'800, dalle popolazioni agricole locali, con i nobili proprietari latifondisti, è un'ordinanza del 1843, con la quale l’intendente della Provincia di Caltanissetta, in una controversia sugli usi civici insorta fra il marchese Pottino e gli abitanti di Resuttano, nega a questi ultimi il diritto di recidere i "piraini", cioè gli antichi peri selvatici, e i "vruchi" esistenti sulle rive del fiume cioè i tamerici. Il piraino produceva piccoli peri arrotondati non commestibili, ma era prezioso, oltre che per il suo legno, adatto a realizzare aratri o manici di zappe, anche come porta innesti e quindi da trapiantare altrove per fargli produrre frutta di altro tipo.
Quanto ai “vruchi”, situati sulle sponde del fiume, servivano per fare "cofani per palmenti e travi per vigne" e i loro virgulti servivano a fare ceste (6).


"Avruchi" - Tamerice

Dai vecchi documenti della contabilità del marchese Pottino si ricava che il feudo di Irosa era costituito da terre "scapole" cioè prive di alberi, e da vigneti, e che vi si trovavano, oltre a fonti e a bevai, un casamento, una chiesa, e due mulini, di cui uno "sotto il casamento" e l'altro, denominato S. Giuseppe, alimentati entrambi dall'Imera Meridionale



Prospetto anteriore della masseria 

La masseria
Esiste ancora e presenta la struttura tipica delle masserie che sorsero nel '600 in tutte le Madonie, per gestire localmente l'attività cerealicola dei feudi. Erano funzionali allo sfruttamento di appezzamenti non molto estesi, delimitati da recinzioni con muro a secco e collegati fra loro da trazzere. Rimasero in funzione sino alla prima metà del XX secolo.


Il prospetto posteriore della masseria
evidenzia la sua funzione all'occorrenza difensiva
La casa padronale è sopraelevata.

Vi si raggruppavano gli edifici necessari all'attività di coltivazione, all'immagazzinaggio del grano e al suo successivo trasporto per la vendita. A questo scopo, tutti gli edifici venivano costruiti attorno ad un ampio cortile, necessario per lo smistamento del grano e l'organizzazione delle "retine" di muli, con le quali si provvedeva al suo trasporto finale. Sul "baglio" si affacciavano la dimora padronale e l'alloggio del massaro (le stanze del proprietario erano al primo piano) e i vari locali necessari, stalle, magazzini, ricoveri per attrezzi, così come quelli destinati alle comuni necessità di coloro che vivevano nella masseria: cucina, forno, deposito per il formaggio, ecc. 


Portone di accesso al baglio

Vi erano abitanti fissi, che avevano quindi un alloggio all'interno della masseria, e lavoratori stagionali sistemati alla meglio in dormitori oppure in pagliai all'esterno. Ad Irosa, come in altri casi, esistono addirittura due distinti cortili, uno principale e uno secondario. 



La masseria, munita di due cortili, vista dall'alto.
Di fronte al portone d'ingresso la chiesetta,

 la "pecoreria", il porcile e la "pagliera".

Si veniva così a creare una struttura autosufficiente e murata, difficilmente aggredibile dall'esterno da briganti o predoni, anche perché gli abitanti erano armati. L'unico portone di accesso, in legno e sovrastato da una lunetta detta "muscaruolo", recava le iniziali o lo stemma dei nobili proprietari. Anche nel portone d'ingresso di Irosa, si leggono tuttora le iniziali "G. P. M. d'I.sa" cioè Gaetano Pottino Marchese d'Irosa.



Il muscaruolo all'ingresso

Il personale di Irosa
Il personale fisso di una masseria era numeroso, considerato che occorreva provvedere a una serie di attività di svariata natura: non solo alle attività di coltivazione, raccolta e trasporto del grano, ma ad accudire agli animali, cavalli, muli che servivano per le rietine,  mucche, maiali e pecore, necessarie per la sopravvivenza dei residenti. 
A capo di tutti stava il rappresentante del proprietario, il massaro o suprastanti, colui che prendeva tutte le decisioni di ordinaria amministrazione rispondendo solo al marchese, che deteneva le chiavi di tutto, teneva la contabilità e gestiva il personale.
Al raccolto provvedevano invece i mesalori, lavoratori stagionali assunti solo per qualche mese. Di durata stagionale erano anche il lavoro del guardiacuozzu, che vigilava sul raccolto, del pallaluoru (addetto alla paglia).



Il personale della masseria Irosa 
davanti al portone di accesso al baglio 

Le incombenze legate al bestiame erano svolte dal curatolo, dall'imintaru, dai garzoni, e dai bordonari, questi ultimi addetti alle mule delle rietineIl ribattiere era l'addetto ai formaggi e al forno e cucinava per i lavoratori. L'nzammatàru provvedeva alla prima lavorazione del formaggio. U picciuttu di casa svolgeva i lavori casalinghi e accudiva al pollaio. U ruttamaru compiva lavori vari soprattutto di trasporto. Era necessario anche un lavoratore specializzato che interveniva solo in alcuni periodi, il vignere, il quale si divideva con altra masseria, quella S. Nicola, appartenente anch'essa alla famiglia Pottino.
La vigilanza, sia verso possibili aggressori esterni, che nei confronti dei lavoratori, era compito di uno o più campieri armati.



Chiesetta della masseria Irosa

La cappella di Irosa
Proprio di fronte al portone di ingresso della masseria, e fuori dalle sue mura, come solitamente avveniva, troviamo la relativa chiesetta, intitolata a S. Antonio e contenente un solo altare con un quadro della Madonna con Bambino e sulle pareti, le stazioni della via Crucis, insieme ad un Crocefisso. 
Venne fondata nel 1673 dal barone Gervasio Pescia, quando prese investitura del feudo di Irosa. In origine, la dedicò alla Madonna del Rosario, ma tre anni dopo, con un atto del 1675, mutò l'intitolazione della cappella e del beneficio da lui fondati, a favore dei Santi Gervasio e Protasio, forse in correlazione con la concessione di una cappella nella Chiesa Madre dei Santi Gervasio e Protasio a Rapallo, da lui ottenuta nella sua città di origine (10).


Portone della chiesetta

Della chiesetta viene fatta menzione in un elenco manoscritto delle chiese del territorio risalente al 1880, custodito nell'Archivio Parrocchiale di Petralia Sottana (11).
Sopra la fonte dell'acqua benedetta, era esposta la pergamena contenente l'autorizzazione vescovile per potervi celebrare messa, necessaria per le chiese dei feudi.



Le persone intervenute ai funerali della 
Marchesa Vincenza Pottino
davanti all'ingresso del baglio - 19.1.1910

La famiglia Pottino utilizzò il casamento sino ai primi del 1900. Alla morte della marchesa Vincenza nel 1910, il funerale si svolse nella chiesa di Irosa, anche se poi la baronessa venne tumulata nella cappella di famiglia al cimitero di Petralia Soprana.


Funerale della marchesa Vincenza Pottino
nella chiesetta di Irosa, 19.1.1910

I mulini
Di uno dei mulini di Irosa troviamo una traccia documentale in una sentenza della Corte Capitaniale di Petralia Sottana del 1676, dalla quale apprendiamo che era condotto da tale Domenico Ortolano da Castelbuono e che il frumento da macinare vi giungeva da tutti i dintorni (9)
Con la sentenza era stato condannato un cliente del mulino, il quale, scontento di un ritardo nella consegna del macinato, aveva ucciso il povero mugnaio a pugni! La gravità dell'episodio, al giorno d'oggi inconcepibile, dimostra come all'epoca, il frumento avesse la stessa importanza del denaro.
I due mulini esistono ancora. 
Quello "sotto al casamento" è ancora visibile a sinistra della masseria ed è stato trasformato in abitazione. Restano il canalone e la botte dove veniva incamerata l'acqua, per far girare i rulli per la macina del grano.
Il mulino Avanella o S. Giuseppe, di proprietà Pottino e poi Griffo, ancora intatto, seppure con gli acciacchi degli anni, si trova, per chi viene da Blufi, accanto al viadotto di Irosa a destra, prima di entrare in autostrada.

Il mulino Avanella o S. Giuseppe
 visto
 dal viadotto Irosa
a destra la lunga condotta forzata dell'acqua
 e sull'estrema sinistra la volta di accesso 
al locale sotterraneo dove era la ruota  

Abbiamo qui un esempio del tipico mulino 
siciliano ad acqua con ruota orizzontale, sul modello di quelli della Grecia antica. Per il carattere torrentizio del fiume Imera, con pericolo di costanti straripamenti, in grado di distruggere qualunque struttura costruita su di essi, i mulini venivano costruiti a qualche distanza dalla riva. Altro problema era quello della scarsa quantità d'acqua nelle estati torride. Il metodo migliore per sfruttare piccole quantità d'acqua, era perciò quello di incanalarle e innalzarle, dando loro così una grande velocità di caduta, tale da poter muovere le pale della ruota del mulino.



L'acqua veniva convogliata dal fiume mediante condotte forzate che gradualmente ne innalzavano il livello, raccogliendola nella cosiddetta "botte" per farla cadere dall'alto. Per sostenere la condotta, veniva costruito un apposito muro lungo quanto necessario per giungere ad un forte dislivello con il terreno ove era situata la macina. 

Il mulino Avanella o S. Giuseppe
 visto dall'alto

Si distingue chiaramente la lunga condotta forzata
 che convogliava l'acqua nella botte

Per effetto della caduta, l'acqua giungeva con forza a getto sulle pale della ruota orizzontale, sistemata in un locale sottostante quello della molitura. L'albero della ruota era quello stesso delle due macine sovrapposte sistemate nel locale sopra, al livello del terreno, nel locale di molitura, per cui ogni giro della ruota comportava un contemporaneo giro della macina superiore su quella inferiore fissa.

Sezione del tipico mulino ad acqua siciliano
L'acqua convogliata nella condotta forzata
cade con forza dal dislivello sulle pale della ruota, facendole girare.
(Scheda del Politecnico di Milano) 

Note

1) Tabulario del Monastero di S. Margherita di Polizzi
2) Orazio Cancila, I Ventimiglia di Geraci, 2010  
3) Capibrevi di Giovan Luca Barberi, 1509, pubblicati a Palermo nel 1886
4) Francesco San Martino de Spucches, Storia dei Feudi e dei titoli nobiliari di Siciliadalla loro origine ai nostri giorni, 1923
5) Atti Corte Giuratoria 1700-1704 - Biblioteca Frate Umile Pintorno. Petralia Soprana
6) Ordinanze emesse dall'intendente Barone di Rigilifi sugli usi civici nella provincia di Caltanissetta, 1843
7) Francesco Ferruzza Sabatino, Cenni Storici su Petralia Soprana, Pezzino Palermo 1938
8) Rosario Ferrara, Chiesa e società fra XI e XIX seolo a Petralia Soprana, 1999
9) Francesco Figlia, Il Seicento in Sicilia. Aspetti di vita quotidiana a Petralia Sottana terra feudale. Officina di Studi Medievali. 2008


Un sentito ringraziamento a Domenico Gulino, per molte delle informazioni storiche e per le foto antiche, tratte dalla sua collezione.

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Commenti

  1. Bellissima storia io ci sono vissuto da bambino

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  2. Una dotta ricostruzione storica della vita contadina d’epoca specie delle masserie.

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  3. Le informazioni relative ai suoi avi sono state tratte dall'articolo di Gino Li Chiavi citato in nota.

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  4. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

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