BRIGANTI A PETRALIA

 



Storicamente, la piaga del brigantaggio, diffusa in tutto il Mezzogiorno d'Italia, colpì in modo cruento anche le Madonie e il territorio delle Petralie, e ciò in due distinti periodi: all'inizio del XVIII secolo e dopo un intervallo di oltre cento anni, alla fine del XIX.

Il bandito Raimondo Sferlazza

Le prime bande di malviventi armati si erano date alla campagna ai primi del Settecento in alcuni territori dell'agrigentino, fra cui quelli di Canicattì e Favara, ove divenne famigerato il gruppo guidato da Raimondo Sferlazza. Le sue ribalderie ci sono state riportate dal Marchese di Villabianca e da Giovanni Evangelista Di Blasi. Lo Sferlazza, nativo di Grotte, era in origine un chierico, ma si diede alla macchia per motivi passionali, per poi scegliere la strada del crimine. A quei tempi, la rapina si chiamava grassazione e il sequestro di persona ricatto. I briganti erano invece scorridori di campagna. Nel 1723, Sferlazza organizzò una propria banda, realizzando colpi che suscitarono particolare allarme per la loro audacia e per l'entità dei riscatti e delle estorsioni.


Brigante - Dipinto di Louis Léopold Robert (1794 – 1835)


Nell'ultimo periodo prima della sua cattura (1726-1727), le scorrerie dello Sferlazza si concentrarono in territorio madonita.

Il sequestro del barone Antonio Pucci a Petralia Sottana (1726)

Per penetrare nella "casina" di campagna del barone Carlo Antonio Pucci in agro di Petralia Sottana, Sferlazza ideò una vera e propria messa in scena, travestendosi con i suoi otto complici da Principe di Spatafora e relativa scorta. Il  principe fasullo finse un malore nei pressi dell'ingresso, e il suo seguito venne a chiedere soccorso in casa Pucci. Mentre il barone faceva accomodare il finto principe per dargli assistenza, i banditi occuparono il posto, fecero incetta delle armi ivi presenti e sequestrarono il nobiluomo.


Stemma dei Pucci


Lo stesso venne portato via e nascosto in diversi luoghi successivi, sino al pagamento di un riscatto di 5000 scudi.
Questa somma, secondo un calcolo approssimativo, era pari a 360.000 euro (lo scudo designava colloquialmente la moneta da dodici tarì, equivalente agli attuali 72 euro).



Tarì del 1708


Carlo Antonio Pucci (1690-1747) di antica famiglia di origine fiorentina, stabilitasi a Petralia Sottana sin dal 1578, era Signore del feudo detto "delle Terre innominate della Chiesa" in Val di Noto. Il barone Egidio, di cui può ancor oggi vedersi la lapide funeraria all'interno della chiesa di S. Francesco a Petralia Sottana, e che vi realizzò l'altare principale, era suo nonno.


Blasone dei Figlia


Il sequestro del barone Pietro di Figlia (1726)

A pochissima distanza di tempo, venne attuato un altro rapimento di un nobile petraliese. Lo Sferlazza sequestrò stavolta il barone Pietro Di Figlia.
La famiglia di Figlia, sin dal 1584, occupava anch'essa una posizione preminente a Petralia Sottana, e a fine '600, un altro Pietro, il nonno di colui di cui stiamo parlando, aveva acquistato il titolo di barone ed i feudi di Sagnefari, Granara e Benisichi.

Palazzo Figlia a Petralia Sottana 


Peraltro, fra le due vittime dello Sferlazza esisteva un legame. Infatti, nel 1726, al momento del rapimento, Pietro di Figlia stava diventando consuocero proprio del Carlo Antonio Pucci già menzionato. Antonina di Figlia si sposò infatti con il figlio del Pucci, Pietro, cui venne trasferito in quell'anno dalla moglie il titolo di barone di Benisichi.
Il sequestro di Pietro di Figlia finì purtroppo in modo infausto. Catturato dal bandito Sferlazza ad Alimena, il barone venne successivamente da lui ucciso. 

Lo spavento che si diffuse all'epoca fra i possidenti, per le spavalde aggressioni della banda dello Sferlazza, che non esitava a catturare le sue vittime a casa loro, indusse il Viceré di Sicilia Joaquin Fernandez de Portocarrero a ricorrere  ai metodi forti.


Il Principe Bonanno

Cattura dello Sferlazza ad Alimena

Così il 7 aprile 1727 il viceré incaricò di questa incombenza urgente il principe della Cattolica, Francesco Bonanno e del Bosco, il quale, stabilita la corte vicariale nel suo feudo di Canicattì, “alla testa di numerosa truppa alemana e di un trozzo di cavalleria di Ussari con cinque compagnie di capitani d'armi nazionali", si diede alla caccia del brigante. 


Nascondiglio
di briganti siciliani in una grotta
Harper's 1875


Sferlazza si era stanziato in quel periodo con sei complici in territorio di Alimena. E venne infatti sorpreso con loro in una grotta e catturato dopo un conflitto a fuoco, nel corso del quale una palla lo ferì alla bocca, tagliandogli la lingua. 
La punizione doveva essere esemplare. Il bandito venne quindi rapidamente impiccato a Canicattì insieme ai suoi complici. Inoltre, perché servisse da monito ai futuri malintenzionati, come aggiunge il Villabianca, "si fe' poscia notomia de' loro corpi estinti, che, fatti in quarti, si feron pendere dalle alture delle portelle e passi pubblici dell'isola e la testa finalmente dello Sferrazza fu inviata a Marsala a marcire sulle pareti del palazzo Fici”.


Non solo, ma, come era uso per i corpi dei “decollati” a Canicattì, le ossa delle sue gambe vennero usate da Masciu Caloriu Bichino per scolpire crocefissi, che vennero regalati agli abbienti e ai devoti del culto dell'Armi Santi Decollati.


Crocefisso di Masciu Caloriu Bichino
fatto con tibie di impiccati
dal sito Partannalive

Questi particolari raccapriccianti danno un’idea del livello di allarme sociale destato a quell’epoca dalle gesta dei briganti. D'altronde, fu da quell'epoca che nacque tra i viaggiatori stranieri, quella triste fama di pericolosità della Sicilia, che sarebbe durata sino ai primi del Novecento.

Il periodo postunitario

Successivamente, ad oltre cento anni di distanza, la recrudescenza del brigantaggio coincisa con il periodo post Unità d'Italia, non risparmiò neppure le Petralie e dintorni. Le vittime venivano spesso sorprese  nel corso degli spostamenti, ad esempio all'atto del trasbordo dal treno alla diligenza, oppure mentre si trovavano in campagna in posizione relativamente isolata. Da dove l'uso dei notabili di non muoversi senza una nutrita scorta di campieri armati. 


Un rapimento in piena strada

Dal 1868 sino al 1894, in Sicilia imperversarono varie bande: nell'agrigentino, quella di Vincenzo Capraro di Sciacca, a Montemaggiore Belsito, quella di Biagio Valvo e Gioacchino Di Pasquale e Antonino Leone a Termini Imerese e dintorni, e per quanto riguarda il territorio madonita, la banda dei Polizzani guidata da Antonino Lombardo, ma soprattutto la famigerata Banda Maurina, di Vincenzo Rocca e Angelo Rinaldi, nativi di S. Mauro Castelverde. 
Questa si distinse per numero di partecipanti e precisione organizzativa. Ma soprattutto perché usò l'efficace strategia di creare una stabile alleanza con le altre bande, giungendo così ad incorporarle, alla morte dei loro rispettivi capi. Venne scelto attentamente dai briganti il territorio dove stanziarsi, sempre al confine fra varie province, come nel caso di S. Mauro, per sfruttare il punto debole dei conflitti di competenza territoriale fra le varie forze di Polizia. La banda maurina fu anche fra le prime ad applicare a proprietari e gabelloti una sorta di “pizzo”, richiesto solitamente  con lettere estorsive, metodo che assicurava un lauto profitto senza colpo ferire.


Dipinto di Louis Léopold Robert (1794 – 1835)

Per svariati anni, i sequestri di possidenti, le crudeli rappresaglie contro quei membri della popolazione che osavano rivolgersi alle Autorità, così come i tradimenti e le conseguenti vendette fra gli stessi banditi, determinarono sia un clima di terrore nelle Madonie, che un certo clamore mediatico nella stampa, anche all'estero. Anche in questo caso vennero adottate misure speciali e reclutati i Bersaglieri, come Forze speciali di Polizia, perché abituati ad operare nelle zone impervie. 


Tenuta da marcia
di bersagliere tra 1800 e 1900

Solo dopo svariati conflitti a fuoco, che uccisero i membri più importanti della banda maurina, i suoi residui componenti vennero catturati nel 1894.


1894 Distruzione della Banda Maurina

Le informazioni più circostanziate sui vari crimini dei briganti emersero durante i processi svoltisi innanzi alla Corte di Assise di Palermo nel 1878 e nel 1894. Fu in quella occasione che le prove delle efferatezze commesse fecero cadere in un sol colpo quella aura di romanticismo creatasi, nei media di allora, attorno alla figura dei banditi.


Ritaglio del New York Times 1895 


Uno dei colpi più clamorosi della Banda Maurina venne attuato in territorio delle Petralie nel 1874, mettendo in luce la figura del suo organizzatore: Antonino Leone.

Il brigante Antonino Leone

Nato nel 1842 a Ventimiglia Sicula, fu picciotto fra le squadre nel 1860, poi soldato nell’esercito regolare, dove subì punizioni disciplinari, tornando alla vita civile. Assunto come garzone da uno zio, lo rapinò ferendolo con colpi di arma da fuoco, per poi darsi alla latitanza, e aggregarsi a varie bande di briganti, come quella del Valvo, e in ultimo, a quella maurina. Alla morte del Rinaldi, nel 1876, fu lui a divenire capo di quel temibile gruppo.


Il prelievo notturno di una vittima dalla sua abitazione
 in una incisione francese del 1874


Particolarmente spietato, si recò travestito da milite a casa del vicebrigadiere che aveva ucciso il suo ex complice Valvo e a fucilate, lo privò di una gamba. Seviziava le vittime dei suoi sequestri di persona e giunse a ucciderne una (il Saelli di Montemaggiore) così come l'intermediario, nonostante l’avvenuto pagamento del riscatto. 


L'interrogatorio di una vittima sequestrata
 incisione della rivista americana Harper's del 1875


Il sequestro del Barone Giulio Sgadari (1874)

Il barone, notabile di Petralia Soprana, era uno degli uomini più ricchi delle Madonie e il rapimento destò scalpore perché per la sua esecuzione si coalizzarono le principali bande, quella dei Maurini di Rocca e Rinaldi, con quelle di Capraro e dei Polizzani. La cattura della vittima e le trattative del riscatto furono gestite personalmente dal Leone.
E' stato possibile ricostruire nel dettaglio le modalità dei fatti, sulla base degli atti dell'istruttoria ed in particolare della testimonianza dello stesso barone.


Processo di briganti a Palermo
Harper's 1875

Nel mattino del 27 marzo 1874, Giulio Litterio Sgadari, che si trovava nelle sue terre dell'ex feudo Garisi (in territorio di Petralia Sottana), insieme ad un gruppo di suoi dipendenti e familiari armati, venne circondato con loro da una quindicina di cavalieri. Costoro, spacciatisi per militi del circondario di Caltanissetta, li disarmarono e fecero prigioniero il barone. L'organizzazione del colpo era stata minuziosa e aveva coinvolto ben 22 banditi, divisi in tre gruppi, di cui due di vedetta, capeggiati da Rocca e Rinaldi, mentre il terzo, cui incombevano i contatti diretti con la vittima, era quello di Leone e dei suoi fidi. 


Il barone Giulio Litterio Sgadari
in una foto dell'epoca dei fatti

Contrariamente ai suoi modi solitamente violenti, il Leone trattò la sua vittima con ogni riguardo, chiedendogli di scegliere fra i suoi complici quello che fosse di suo gradimento per fargli da guardia personale, e fornendogli ogni comodità, tanto da far dire allo stesso Sgadari, testimoniando al processo, che quello era stato l’albergo più caro che si potesse immaginare! 

In modo volutamente beffardo, come ha poi rilevato anche Leonardo Sciascia nel suo libro “Nero su nero”, il brigante usò esagerati riguardi nei confronti del barone, quasi a volergli far rimarcare la totale inversione dei loro reciproci ruoli, ordinando ai suoi sgherri di baciare uno ad uno la mano del rapito, e di salutarlo con il titolo di Vostra Eccellenza.

Il  brigante Barberino, che apparteneva alla banda Capraro, scelto quindi come carceriere dallo stesso barone, prese in consegna Giulio Sgadari e, con altri cinque complici, lo portò nel nascondiglio scelto da Leone, un antro del bosco di S. Onofrio, vicino a Ventimiglia. Bosco che Leone conosceva benissimo, dato che da ragazzo lo aveva perlustrato per anni come pastore. 


Monte di S. Onofrio,
nei pressi di Ventimiglia di Sicilia
ove venne nascosto il barone Sgadari 
dal sito my.viewranger

Il riscatto fu di 127 mila lire in oro (circa mezzo milione di euro) e alla sua consegna, dopo otto giorni di prigionia, il barone venne restituito alla sua famiglia.

Successivamente, il Leone litigò con il suo complice più fidato, Gioacchino Di Pasquale (che proveniva dalla banda Valvo). Si disse che dopo il sequestro, il Di Pasquale avesse accettato dal barone Sgadari l'incarico di ucciderlo, e gli avesse tirato addosso delle schioppettate, senza però riuscire a finirlo. Leone si vendicò del Di Pasquale con 13 pugnalate, quindi lo decapitò e, in segno di sfida, fece ritrovare la sua testa barbuta poggiata sul davanzale della finestra della Sottoprefettura di Termini Imerese. 


Olio di Giovanni Fattori - 1864

Cattura del Leone

Dopo queste tracotanze del Leone, nel giugno del 1877, un intero battaglione di bersaglieri venne mandato alla sua ricerca e, individuato il suo nascondiglio in territorio di Montemaggiore Belsito, lo uccise in uno scontro sanguinoso.

Tale era stato l'allarme sociale per i crimini del bandito, che l'arma da lui usata al momento della sua uccisione, una carabina-revolver da 24 colpi, venne donata dal Ministro Nicotera al re Vittorio Emanuele II, nel corso di una cerimonia pubblica, come un trofeo di guerra.


Ritratto post mortem del bandito Antonino Leone
tenuto seduto da una corda
L'Illustrazione Italiana 1877
 
All'epoca, sia a scopo di monito, che per tranquillizzare le popolazioni con una prova visibile, si fotografava il cadavere del bandito ucciso, seduto su di una sedia o legato in piedi ad un palo, e da queste foto venivano ricavate incisioni diffuse nei principali giornali.

Altri episodi successivi

La morte del Leone, dopo quella di Rocca e Rinaldi, non mise fine al brigantaggio nelle Petralie. Nello stesso periodo di fine anni 70 dell'800, la stampa diede notizia di altri episodi. 

Nel 1878, a quattro anni dal sequestro Sgadari, sempre nella fattoria di proprietà del barone nell'ex feudo Garisi, fecero irruzione quattro banditi che uccisero un garzone.

Il 7 ottobre 1879 e poi nel 1894, il barone Gandolfo Pucci, della stessa famiglia di cui abbiamo parlato sopra ricevette a Petralia Sottana una serie di lettere estorsive.

Lo sventato sequestro del Sindaco di Petralia Sottana Giulio Polizzotti a Bompietro (1886)

Le gesta della Banda Maurina fornirono ispirazione a nuovi malviventi, per fortuna organizzati in modo più sommario.
Nel 1887 il giornale militare "Il Carabiniere" evidenziava, con motivato orgoglio, un efficace intervento congiunto delle varie Forze di Polizia locali, che aveva salvato il sindaco di Petralia Sottana da un rapimento, progettato da una banda di quattro persone originarie dello stesso territorio. Una provvida "soffiata" aveva permesso di tendere loro un tranello.

 


Il crimine era stato progettato presso la casa di villeggiatura del sindaco, situata in località Arena di Bompietro. I Carabinieri si appostarono nei pressi e il Polizzotti volutamente uscì a passeggiare per attrarre i briganti. Costoro lo aggredirono ma furono immediatamente accerchiati. Riuscirono però a  rifugiarsi all'interno della casa, per prendere in ostaggio i familiari del sindaco. Iniziò quindi un conflitto a fuoco che fortunatamente non lese alcuno, e che si terminò con la cattura dei responsabili. 
Costoro confessarono poi che avevano progettato di chiedere un riscatto di 3000 onze e di nascondere il Polizzotti nella grotta ove sedici anni prima, quindi nel 1870, era stato ucciso un altro sequestrato di nome Alleri.


Briganti in agguato
Harper's 1875


L'interesse della stampa 
All'epoca dei fatti, la stampa sia italiana che estera diede grande risalto alle efferatezze dei masnadieri siciliani e poi alla loro cattura e ai processi che seguirono, e ciò non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti. Diversi latitanti erano d'altronde riusciti a farla franca, emigrando clandestinamente oltre oceano. Molte delle illustrazioni di questo post sono tratte dalla rivista americana Harper's del 1875.
Oltre alle numerose opere sul fenomeno del brigantaggio post unitario, tre libri in particolare vennero dedicati dal giudice Giuseppe Di Menza e Vella, alla vita di Leone e alle malefatte della banda Maurina. Si tratta di opere molto attendibili perché fondate sui dati estrapolati dalle indagini e dai processi.

La rivista Il Carabiniere pubblicò anche nel 1887 un romanzo a puntate dal titolo "Le due vendette", in un capitolo del quale viene narrato il sequestro di un barone, ambientato a Petralia Soprana.


Una curiosità della sua trama: la scarsissima fiducia nelle istituzioni determinava spesso le famiglie dei sequestrati a trattare con i banditi senza avvisare le autorità. Per questo motivo, il protagonista dell'episodio, un valente carabiniere, avendo appreso in tempo reale del sequestro, decide di bloccare agli arresti in casa l'intera famiglia del sequestrato, pur di evitare suoi contatti con i banditi, e riesce così ad intervenire in tempo e a risolvere felicemente la situazione. Questa soluzione drastica anticipava di un secolo misure adottate concretamente negli anni 1990 dalla normativa anti-sequestro di persona, come il sequestro dei beni della famiglia del sequestrato.


Cenni bibliografici:

Francesco Maria Emanuele Gaetani Marchese di Villabianca, I banditi di Sicilia, 1790, ristampa Palermo, Edizioni Giada, 1988, pp. 62-65

Giovanni Evangelista di Blasi e Gambacorta, Storia cronologica dei viceré luogotenenti e presidenti del regno di Sicilia, dalle stampe di Solli, 1791

Giovanni Evangelista di Blasi e Gambacorta, Storia del regno di Sicilia dell'epoca oscura e favolosa sino al 1774, con appendice a cura di G. Di Marzo Ferro, Palermo 1846, volume 3

Prefettura di Palermo, Archivio di Gabinetto 1860-1905

Rivista L'Illustrazione Italiana, volume 4, 1877

Giuseppe di Menza e Vella, Episodi della vita del masnadiere Leone, Tipografia del Giornale di Sicilia, 1877

Il Brigantaggio, in La rivista europea Tip. Fodratti, 1877

Giuseppe Di Menza e Vella, I masnadieri maurini : storia delle bande armate in Sicilia dal 1872 al 1877, Palermo : Tipografia del Giornale di Sicilia, 1878 

Mario Jessie White, In memoria di Giovanni Nicotera, 1894

Rivista Le Petit Parisien supplément littéraire illustré, 6 gennaio 1895

Gaston Vuillier, La Sicile, Hachette, 1896

Francesco Saverio Nitti, Eroi e briganti, Roma, 1899 

Fausto di Renda (pseudonimo di Agostino La Lomia), Le anime dei corpi decollati, in "L'Illustrazione Siciliana", a. VII, n. 3-4, Palermo, marzo-aprile 1954.

Leonardo Sciascia, Nero su Nero, Adelphi, 1991

Francesco Pillitteri, Vescovi e società girgentina del Settecento, 2004

Giovanni Nicolosi, La Sicilia dell'ottocento prigioniera dei briganti maurini, Pietro Vittorietti, 2012


© Testo protetto da copyright.
Ogni riproduzione anche parziale è vietata



Commenti

Post più popolari