FRUTTI DI COGGHIRI O D'ACCAMPARI, MUNTAGNI MUNTAGNI

 

di Enzo Orlando

Ricordo i tempi in cui la mattina si sentivano a Petralia Soprana grida di ambulanti per la strada.
C'era in particolare la voce di un contadino con il suo mulo, che aveva come soma due grandi ceste: Ficurinii! 40 'na lira! Accattativi i ficurinii! 
Diceva una per dire in realtà 100 lire ed era il solo a fare così, forse perché non si arrendeva alla fortissima svalutazione  avvenuta dopo la guerra: 100 lire del '47 equivalevano a 1 lira del '39.


Dalla lira del '39 alle cento del 1946

Scendevo giù nella via col mio secchio e ne compravo giusto 40. Sarebbero bastati per una frugale colazione per me e tutta la famiglia, insieme a grandi fette di pane appena sfornato dal fornaio vicino casa. Anche un chilo di pane costava 100 lire.

Data l'altitudine, a Soprana i fichi d'india non erano molto diffusi, in compenso quelle poche pale che si trovavano avevano un dolcissimo sapore e poche spine.
Specialmente i bastardoni, ottenuti dal diradamento dei frutti, di cui si ridimensionava la quantità in modo che i frutti rimasti si facessero più grossi e più sodi. Ho sentito dire che dei fichidindia si consumano anche le bucce, infarinate e fritte come cotolette, ma a Soprana non era uso.


Ficudinii

In paese era raro che comprassimo la frutta. Nelle campagne vicine ce n'era tanta e anche se non sempre di prima scelta, era sicuramente genuina e non avvelenata da anticrittogamici. Era uso mangiarne anche  come companatico, insieme ai formaggi.

E ricordo quando Ursula, la mia fidanzata di allora, era venuta con me a Soprana nella vigna di mio zio Francesco a Zorba. Quando notò ai bordi della trazzera un roveto carico di more, non esitò a fare sosta per raccoglierli. Mi unii a lei così come i miei cugini: tutti a raccogliere more.


Amuri

Quindi dopo averle lavate dalla polvere e dopo essere andati insieme a comprare della panna nella vicina Madonnuzza, arrivati a casa, Ursula ne ricavò un gustoso dessert. Le fece guadagnare un complimento da mia zia, che ne lodò le doti svizzere.

Le more sui rovi di Soprana ci sono ancora oggi, ma nessuno si sogna di raccoglierle né di farne un dessert.

E quell'albero di gelso? Ricordo. Che ricordi!
Avevo 10 anni circa e mia nonna mi portava spesso in campagna dalla sorella che abitava con la sua famiglia a Santa Caterina. Lei aveva una particolare predilezione per quella casa.
Era la casa paterna dove era nata e dove aveva abitato insieme alle sue otto sorelle, suo padre e sua madre. L'unico brutto ricordo era quello di suo padre che non avendo avuto figli maschi, aveva costretto a svolgere il lavoro dei campi loro, le sue nove figlie femmine.
Fu per questo che cinque di loro emigrarono negli Stati Uniti e non diedero più notizie di se.

 
Mia nonna Maria Di Gangi

Mia nonna si salvò sposando un uomo di circa trent'anni più grande e con una figlia che aveva quattro anni più di lei. Era un raro caso in cui la figlia(stra) era più grande della madre (matrigna). Divenne una delle più ricercate tessitrici e orditrici di Soprana.

La nonna mi voleva un gran bene ed io spesso la seguivo ovunque mi portasse.
Santa Caterina era un sogno e ci andavo volentieri. Lo zio Santo uccideva un coniglio e lo si apparecchiava al sugo. 
Nel cortile c'era ogni sorta di animale: il maiale, due pecore, una capretta, le galline e il gallo che cantava tutte le mattine. C'erano i tacchini, i conigli e un po' più in là, la stalla dell'asino e dei muli. Accanto alla casa un bell'albero di fichi, che io e mia cugina andavamo spesso a raccogliere.


Ciazi
Foto di Calogero D'Alberti 

Ma la meraviglia era quell'albero di gelso laggiù, oltre il fiume Salso, che aveva la sua sorgente a qualche kilometro da lì, alle Gole del Cigno. L'albero era nel cortile della famiglia Miranti, ma gentilmente ci concedevano di raccogliere i gelsi. 

Andavo a raccoglierli con mia cugina la mattina presto, prima che si alzasse il sole, e a petto nudo, per non sporcarmi la maglietta. Mi arrampicavo sull'albero mentre mia cugina restava giù. Raccoglievo i gelsi, che spesso mi colavano sulla mano, e il loro succo raggiungeva anche il petto. Il loro gusto non è descrivibile ma ciò che si assaporava di più era quel senso di libertà, fuori da ogni schema o regola. Prima che il sole si alzasse e si elevasse la temperatura, tornavamo a casa portando con noi alcuni frutti, che avevamo messo dentro un panierino di vimini portato con noi.

Di alberi di gelso adesso ce ne sono sempre meno, dal momento che non si allevano più i bachi da seta che si nutrivano delle loro foglie. E dal momento che oggi la seta la importiamo dalla Cina.


Bifare

Ricordo quei meravigliosi fichi, più esattamente le bifare, ancora più buone dei fichi, le mangiavamo con il pane ancora fragrante appena uscito dal forno. Venivano anche essiccati in vista della cattiva stagione. 
Nella vigna c'erano anche bei grappoli d'uva, la più dolce era la muscatedda. Pazienza se qualche chicco era stato morso da un'ape. Si dovevano scegliere solo i chicchi migliori. I grappoli più belli venivano poi appesi al tetto per la conservazione per l'inverno.

Ma i gelsi e i fichi non erano gli unici frutti che raccoglievamo.

Nella vicina vigna, oltre ai grappoli d'uva bianca e nera, c'erano alberi di piridda di San Pietru dalla faccetta rossa e dal sapore dolce e indescrivibilmente aromatico, un fragrante sapore di vaniglia. Il nome era dovuto al fatto che maturavano intorno al 29 giugno (festa di San Pietro e Paolo). Raccoglievamo anche i pumidda che non erano molto dolci, anzi avevano un sapore acidulo, erano mele di quelle piccole, di colore verde acqua e dolci. Che importava! Si poteva fare una buona marmellata, da utilizzare per la crostata di mele. 


Piridda

A Santa Caterina c'era qualche albero di limoni e uno di arance. Noci, mandorli e castagni.

Se invece da bambino mi ritrovavo con qualche compagno a fare una passeggiata nei pressi del convento di Santa Maria di Gesù, era uno spasso raccogliere cucchi, cioè le bacche del bagolaro detto anche caccamo, e dopo averne mangiata la poca polpa, ci divertivamo a lanciare l'ossicino con una cannuccia, come se fossimo degli schioppettieri. Il bagolaro era un albero imponente e robusto. Le sue radici ramificavano ovunque, anche in terreni compatti, tant'è che era detto albero spaccapietre.


Cucchi

Altri alberi da frutto in cui ci imbattevamo anche senza volerlo, erano i corbezzoli, che non riuscivamo a consumare appena colti. I corbezzoli erano molto rari e poco commestibili. Crescevano nei boschi vicini. Maturavano tra ottobre e dicembre, ma erano molto delicati e deperivano presto, per cui si preferiva farne confetture. Avevano proprietà antinfiammatorie e regolavano il funzionamento dell'intestino.


Corbezzoli 

Le azzeruole, dai colori bianco, giallo o rosso, si consumavano appena raccolte, ma avevano un sapore acidulo. 

'Zzalori

Altro albero da frutto particolare era l'amarena, che non si consumava cruda ma con cui si facevano marmellate o fresche bevande per l'estate.


Amarene

Che dire del melo cotogno?
Era molto legnoso e incommestibile, ma se ne preparava una squisita e densa marmellata detta cutugnata.


Cutugna

Alla periferia del paese, passando nei pressi del castello, vedevo un albero dalle meravigliose infiorescenze bianche a forma di ombrelle.
Chiedevo:
"Ma che albero è questo ?"
Mi si rispondeva:
"È un sambuco"
Ancora stento a credere che quei fiorellini bianchi si potessero mettere sul pane per aromatizzarlo.


Savuca


Ricordo che il nonno aveva piantato anche degli alberi poco comuni, fra cui un nespolo del Giappone, che dava i suoi frutti in inverno. Si consumavano quando avevano la consistenza della nutella. 


Niaspuli 'e Chiappuna

Così come le sorbe, che nonna raccoglieva ancora acerbe; ne faceva dei grappoli, delle piennule e le appendeva alle travi del tetto in cucina, in attesa che maturassero per l'inverno, diventando scure e morbide.

Sorvi mature


Per terminare voglio ricordare la rosa canina, un arbusto che dopo i fiori, produce delle bacche non immediatamente commestibili, che in siciliano chiamavamo i vaccareddi.
Se ne può ricavare una confettura molto ricca di vitamina C.


Vaccareddi

Quando avevo 6, 7 anni, non solo non c'era internet, ma neanche giocattoli da comprare, e queste bacche facevano parte dei nostri divertimenti.
Cavalcavamo un bastone, su cui mettevamo una piccola bisaccia fatta da noi stessi che riempivamo di questi frutti, trasportandoli dalla periferia del paese fino a casa.
Forse si chiamavano vaccareddi perché con 4 spine della pianta in cui crescevano, facevamo le zampette e sembravano proprio piccole mucche.

Insomma a quei tempi, la frutta non la compravamo e le domeniche che gli zii e cugini salivano al paese ci portavano sempre qualcosa frutto della campagna e del loro lavoro...

'N campagna 
mancu c'eranu putii
dunni putiri accattari
gnè manciari,
ma bastava vulari
e, comu 'acìeddi,
nni putìamu procurari
di vìviri e sazziari.



© Testo protetto da copyright. Ogni riproduzione anche parziale è vietata

Commenti

Post più popolari