U SCANCIU


Ci sono stati tempi non lontani (anche sino agli anni cinquanta) in cui la fame era tanta e il denaro scarso. Nulla si sprecava e ci si ingegnava per far fruttare all'estremo ogni risorsa.

I bambini di allora si ricordano i pizzicotti e le punizioni per aver rubato qualche mandorla o fico esposto al sole ad asciugare o riposto sotto il letto nei canestri.
Di conseguenza, in tempi in cui non esisteva ancora il bitcoin, nelle Madonie, come altrove, era usuale il baratto, cioè lo scambio di oggetti o alimenti a seconda del bisogno, oppure quello delle prestazioni lavorative. Ma più spess
o, il pagamento avveniva con "merci-moneta", prevalentemente derrate alimentari, uova, lenticchie, fave, e prima fra tutte, quella meno deperibile e più atta allo stoccaggio: il grano. 
Si impone a questo punto un breve ripasso delle misure dei cereali sino agli anni '50: nelle Petralie queste erano tumminu (17 chili cerca), menzutumminu (la metà), munnieddu (un quarto di tumminu) e cozza (un ottavo), che si misuravano con recipienti adeguati.


Recipienti per la misurazione dei cereali 
 Museo Civico di Petralia Soprana

Molti artigiani venivano pagati dai clienti solo dopo il raccolto. Coloro che nel corso dell'anno avevano fornito attrezzature e lavori di vario genere, u lignamaruu mastru, nel periodo della trebbiatura si mettevano in giro per le varie aie, per riscuotere il pagamento. Si narra di un firraru, che si portava dietro un pezzo di ferula, in cui erano state segnate tacche corrispondenti a ciascun lavoro. Dopo che la ferula matrice del creditore veniva fatta combaciare con l'altra parte, tenuta dal contadino, si pagava il lavoro svolto tutto l'anno.



Il pagamento del debito sull'aia

U varveri accurdatu
I calzolai o barbieri del paese, oltre ad avere la loro bottega, si recavano regolarmente nelle borgate lontane e nei feudi, rimanendo via da casa per diversi giorni, per tagliare i capelli e risuolare le scarpe direttamente a domicilio, venendo molto spesso pagati in natura, solitamente con derrate. Esisteva una sorta di abbonamento annuo: u varveri era accurdatu. Un tumulo di grano (versato a fine estate) bastava per pagare una barba a settimana e un taglio di capelli al mese. Appare evidente l'enorme deprezzamento del grano intervenuto all'epoca attuale: oggi un chilo costa appena 25 centesimi! 


U varveri a domicilio


"Quando Mastri Dovianu faceva a simanata, noi ragazzi ce ne stavamo nel salone a fare circolo con i figli del barbiere. Ogni due tre mesi a fine settimana il cognato di Mastri Dovianu lo recuperava, tornava in paese con sacchi di grano, ceci, fave, lenticchie, che aveva ricevuto in pagamento. Mastri Turiddru si era attrezzato meglio, aveva comprato un asino ed anche un pezzo di terra a Verdi. Se ne stava nei borghi quindici giorni, alla bottega pensava il figlio Pietro. Mastri Turiddru Cerami cavava pure denti e attaccava sanguetti, che teneva in un vaso di vetro in bella mostra nel Salone." (Mario Sabatino)

Anche le sarte che si recavano a casa d'altri per eseguire alcuni lavori impegnativi di cucito (nella zona del castello c'era a "Ciudda") venivano talvolta pagate in natura.



Il monaco di cerca

Scambio in ambito religioso
In periodo di trebbiatura, da un'aria all'altra, passava anche il monaco di cerca con il suo mulo e con una sacchina appesa alle spalle, che cercava di riempire con offerte in frumento. Se nell'aia c'erano degli scarti, recuperava direttamente qualcosa. C'era chi offriva due cozze, chi tre e chi mezzo tumulo. Giungere ad un tumulo rappresentava quasi sempre un ex voto.
L'offerta dei contadini veniva solitamente ricambiata dal monaco con qualche sarda o oliva salata e con un santino.



Anche il parrocco, quando veniva a benedire le case, riceveva un'offerta in derrate: due uova, un po' di legumi o di verdura.

I venditori ambulanti
Fino agli anni '50, non esisteva il concetto di fare la spesa. Erano i commercianti a venire a casa a proporre le loro mercanzie. Nel territorio madonita girava per esempio u pannieri che, a dorso di mulo, percorreva le mulattiere e le vicinali, fermandosi ad ogni casolare o masseria, portando con se scampoli di stoffe, aghi e "spagnolette", ditali, forbici e piccoli attrezzi di uso domestico che permutava con derrate alimentari.
Questo baratto si svolgeva tra il commerciante e le donne della famiglia contadina attraverso contrattazioni estenuanti sul quantitativo da versare nelle bisacce del venditore in cambio della merce, fra il magnificare la qualità della mercanzia, intercalato dalle ultime notizie raccolte dal mercante durante il percorso (su morti, nascite, matrimoni e fuitine). 
L'unità di misura era di solito la tazzina da caffè (cicara) o la tazza da latte. La contropartita per una bustina di aghi (gugghiata) era una tazzina da caffè piena di grano. Se si considera il valore del grano negli anni '50, si possono immaginare i lauti guadagni di queste persone, che nel primo dopoguerra accumularono notevoli patrimoni. 


Questi "commerci" avvenivano spesso all'insaputa dei capi famiglia, di solito mentre erano al lavoro sui campi, ed era facile alle donne contadine sottrarre senza destare sospetti qualcosa dal deposito del grano, di solito custodito sotto il letto matrimoniale. U granaru aveva per base un muretto di gesso rettangolare, sul quale erano poggiate le tavole e il pagliericcio. Naturalmente la contrattazione si concludeva sempre a favore del "panniere" che, a conoscenza del sotterfugio, approfittava dell'assicurata complicità.




I capiddi vi canciu


Per comprare oggetti di minuta merceria, era possibile anche offrire un'altra merce di scambio: i capelli. Infatti, quando si pettinavano, le donne non buttavano i capelli ritrovati nel pettine, ma li arrotolavano per conservarli accuratamente in un apposito sacchetto o in una calza.

"I capiddi vi canciu". Con questo grido si annunciava per le strade un ambulante con un largo cesto di vimini appeso al collo, pieno di mollette, pettini, ditali, palloncini, che offriva in cambio dei capelli, usati poi in città per confezionare parrucche. Da Bompietro veniva in sella al suo sciccareddu tale Luigino, che poi riuscì ad aprire al suo paese un negozio di stoffe.




A putìa
Sino a cinquant'anni fa, nelle botteghe si ricorreva molto spesso al credito. A Petralia Soprana 'Zza Michelina segnava nella libretta nera relativa al cliente gli acquisti da pagare. Ma qualcosa si poteva anche comprare a scanciu. Si mandavano i bambini a portare le uova prodotte dal pollaio casalingo nella piccola putia che vendeva di tutto, scambiandole con 100 grammi di mortadella o con il cioccolato gianduia o con lo zucchero a pietra.


A putìa

Il pagamento in natura per la collaborazione


Per molte delle incombenze stagionali che si svolgevano in compagnia, l'aiuto prestato veniva compensato con una parte del prodotto lavorato.

Ad esempio nelle serate di ottobre, le donne del vicinato si riunivano per sbucciare le mandorle, togliendo loro u piddrizzuni. A fine serata ogni donna veniva ricompensata con una cozza di mandorle e con i piddrizzuna, che riponeva nel grembiule, e che servivano poi per alimentare il fuoco. La cenere veniva poi riciclata come detersivo.



Lavori di sbucciatura in compagnia

In altro periodo dell'anno, si passavano lunghe serate a pulire il grano dalla terra, dalle pietruzze, e dai chicchi non ben maturati o da semi estranei. Il tutto si chiamava scagghiu e si dava ai polli. Anche in questo caso, a chi partecipava alle operazioni si dava parte dello scagghiu assieme ad un po' di farina.

Inventiva
Il baratto prendeva le forme più svariate a seconda dei bisogni di entrambe le parti. Ad esempio c'è chi ricorda, verso il 1942, la riparazione di un lemmu in cambio di una matassa di filo ricavata da una coperta fatta all’uncinetto e smontata. Erano altri tempi: nulla si perdeva, nulla si distruggeva.

U cunza lemmi

Concludiamo con un'osservazione forse banale. Al giorno d'oggi il rapporto fra beni e impegno manuale si è capovolto. Il valore di un oggetto, settant'anni fa, era tale da giustificare l'investimento di notevole fatica per ripararlo, mentre in tempo di consumismo e di economia globale, siamo sopraffatti dagli oggetti, che anzi fatichiamo a smaltire, ed è cresciuto al contrario il valore della manodopera.



Ringraziamenti (in ordine alfabetico)
a Pietro Cassaniti, Lucia Farinella, Domenico Gulino, Santo La Placa, Ernesto Messineo, Giuseppina Pantano, Antonio Polito, Mario Sabatino, Natale Sabatino

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