MASTRI DI UNA VOLTA


Foto di Carmelo Spitale

Il termine siciliano mastru deriva dal latino magister (colui che sa e che può insegnare) ed esprime tutto il rispetto dovuto, in un'economia rurale, a chi possedeva l'arte del "saper fare". Non per nulla l'equivalente italiano è artigiano che deriva dalla parola arte.
Con l'aiuto dei suggestivi versi di Vincenzo Orlando, tratti dalla poesia "Carusu, iva taliannu", abbiamo voluto far rivivere alcuni dei mestieri di una volta a Petralia Soprana.
Data l'ampiezza dell'argomento, ci siamo limitati per il momento a tre dei mestieri più diffusi. 

U  FIRRARU

Petralia Soprana, con i suoi pregevoli balconi bombati e portali merlettati, illustra in ogni dove, una lunga tradizione nella lavorazione del ferro battuto, attività propria d'u firraru o mastru ri forgia


Mastru Pietro D'Alberti nella sua forgia

Ecco come ce la descrive la poesia:

"Mancu evìa cincq'anni,
quannu mi nni iva
nn'a forgia e taliari
e me patri travagghiari,
e i’ che cci girava
a manovella du ventilatori,
che mancu cc'errivava,
e cci facìa vìantu,
`ncapu ddu cravuni
che parìa fiarru ch'eddumava.
"'U vidìa mentri ezzarriava zappuni
sciamarri, subii e mazzola,
quannu `capu u fiarru 'ncandescenti
e mùaddu cafuddava
e quannu ccu `a mazza cci picuniava.
Cci vidìa fari canalati,
sicchia, bagneri
e lanceddi di lanna zingata
e cc'u saldaturi
`i 'ncusturava `i stagnu."

A lancedda e u lanciddaru o cancìeddu

Una stessa persona cumulava spesso sia l'attività del ferraio, che quella dello stagnino o stagnataru, che realizzava gli utensili per cucina, quadare (pentoloni)lanceddi (contenitori per liquidi), padelle, conchi (bracieri), oppure grondaie, a partire dai fogli di rame rosso o dalla lamiera zincata. Sul foglio di lamiera si tracciavano i contorni dell'oggetto desiderato, con l'aiuto delle forme; tagliata con una cesoia, la lamiera veniva poi modellata e infine saldata. Occorreva poi stagnari, cioè ricoprire di stagno la superficie interna delle pentole in rame, per evitare il contatto del cibo con l'ossidazione tossica del metallo. Questa operazione andava poi ripetuta dopo un certo tempo, ed esistevano anche stagnatari ambulanti che vi provvedevano girando casa per casa.


U Trispu

"Facìa currioli, rriti pp'u lìattu,
purtuna `i fiarru
e firrava scecchi e muli
ch'ecchianavanu o paisi d'i campagni
pp'eviri puai `i scarpi nùavi
e trippari mìagghiu viola viola."




U furgiaru era anche maniscalco, cioè si occupava di firrari cavalli, muli ed asini. Il ferro veniva martellato a caldo e applicato allo zoccolo dell'animale, operazione che richiedeva grande forza e destrezza.

"Sapìa fari scarpedda, martedda
runchi e facigghiuna,
ppi mètiri l'erva ed o furmiantu.
Puru i' `ne vota
fici 'ne lancidduzza,
e un cutidduzzu
cc'u manicu du cuarnu."


Mastru Pietro Barbera
Foto di Marcello Lo Mauro


La maggior parte degli attrezzi della campagna, come falci e roncole, veniva realizzata dal furgiarucui venivano richieste inoltre continue riparazioni di quelli già in uso.

Ma anche in ogni parte della casa, appariva l'opera del mastru firraru, a partire dal trispu, cioè dal trespolo a quattro piedi su cui si poggiavano le tavole del letto, sino ai cardini, alle maniglie, a serrature e chiavi. L'esterno dell'abitazione era completato da balconi, inferriate e sopraporte, che univano l'utile al decorativo.


Serrature e chiavi artigianali

L'officina del fabbro emanava un misto di odori inconfondibili, quello del ferro lavorato, del carbon fossile bruciato nella forgia, e quello della tempera degli utensili d'acciaio immersi nell'acqua a raffreddare. Ai ragazzini piaceva osservare ì spisìddi (le scintille) sprigionate dalla mola e la forte luce rossa della forgia. 

Gli attrezzi d'u firraru
A fòrgia (fucina a carbone), u martèddu'ncùnia (l'incudine), ‘a squatra‘a tinàgghia (le tenaglie), ‘a mòrsa‘a ghiavi ‘ngrisi (la chiave inglese), ‘u cacciaviti (il giravite), ‘u calibru e ‘a mòla. A questi si aggiungeva per il maniscalco a ruòsila che serviva a livellare l'unghia dell'animale.

Attrezzi per lavorare il ferro battuto


BOTTEGHE FAMOSE 
Petralia Soprana, residenza di marchesi, baroni e ricchi signori, sino a fine Ottocento, era nota per le sue botteghe di esperti furgiari. Vi si ammira tuttora un ricco repertorio di arti decorative applicate ai balconi, alle sopraporte e alle ringhiere. Per quanto riguarda il secolo scorso, resta il ricordo della famiglia Cerami, di cui il famoso Lorenzo Cerami, autore del lampadario ancora visibile nella scalinata del Palazzo Comunale.



      Arte dei furgiari di Petralia Soprana nel 600-700

I pregevoli ornati in ferro battuto di tanti balconi di Petralia Soprana ci portano a sognare le belle dame del '600 e del '700 che vi si affacciavano. La bombatura tipica che li caratterizza non era tanto necessitata dall'ampiezza delle gonne, quanto da una scelta stilistica barocca, evidente anche nelle curvature presenti in edifici (come la facciata di S. Maria di Loreto) e nel mobilio (panciuto e con piedi ricurvi) di quell'epoca.


         Grata di S. Maria di Loreto

Chiudiamo il capitolo dei mastri ri forgia con un proverbio:
A gatta ru furgiaru nun si scanta ri spisiddi 
(si dice per affermare la propria padronanza nel fare le cose).


Opera di Lorenzo Cerami

U  LIGNAMARU

Falegnami dei primi del XX secolo a Petralia Soprana

Erano invece il profumo del legno e l'odore di colla e di vernice a dominare, nell'officina del falegname, dove, anche stavolta, ci guida la poesia di Vincenzo Orlando:

"Iva nni don Pìatru, 'u lignamaru,
`u vidìa cc'u chianùazzu,
mentri che sirrava tavuli di lignu,
cci vidìa chiantari chiova,
o squagghiari a codda forti
intra a pignatedda
e m'inzignava comu si facìanu
`i maiddi, `i pili,
i porti, `i parmisciani ed e finestri.
Puai eccampava tavuliddi,
farfallicchi e chiuvitedda
e m'i purtava intra ppi jucari."

Mastru Mariano Cerami

Gli attrezzi d'u lignamaru
U chianùazzu (la pialla a mano), 'a serra (la sega), i chiova, 'a codda, u trapanu. 



Attrezzi d' u lignamaru



Mastru Marianu Cerami
Foto di Franco Barbagallo
(da Il Parco delle Madonie)

BOTTEGHE FAMOSE 
Nella patria di Frate Umile e di Frate Innocenzo, non sorprende lo sviluppo di una lunga tradizione nell'intaglio del legno. Si possono tuttora ammirare nelle chiese locali le opere di artigiani del Settecento come i fratelli Di Giovanni e la famiglia Serpotta, imparentati  con i celebri stuccatori. Nell'Ottocento, è ancora elevato il livello di raffinatezza delle botteghe più note. Spiccano in particolare l'armadio monumentale in noce della sagrestia di S. Maria di Loreto, dagli intricati decori che raffigurano l'Apostolato, opera di Franco Li Pira, così come gli stalli del coro della Chiesa Madre, che alla morte del Li Pira, furono terminati da Domenico Abbate.
Silvestre Sabatino si deve invece un altro poderoso armadio da sagrestia intagliato, quello della chiesa del Ss. Salvatore.

Opere di Franco Li Pira
Chiese di S. M. di Loreto e dei SS. Pietro e Paolo

U SCARPARU

Un'altra categoria di artigiani di fondamentale importanza per la vita quotidiana, sino ad una cinquantina d'anni fa, era quella dei calzolai. 
Alla bottega "ru scarparu" ci accompagna ancora una volta la poesia di Vincenzo Orlando.

"Atri voti mi nni ija nni Turiddu,
nni don Mariu, nn'o zzu Carmelu,
nni Micheli `u mutu e cci vidìa fari scarpi.
Mittìanu supratacchi, cci facìanu `i pìatti,
e parìanu errìa nùavi 'i scarpi vìacchi.

Tagghiavanu tomai pp'i scarpi nuavi
e nn'e scarpuna ci rmittìanu 'i tacci.
Ppi tagghiari `u cùariu
usavan'u trincìattu,
`u spirtusavanu ccu `a lìasina,
e 'nciravanu scapu,
che nn'a punta evia
u' 'nzitu `i pùarcu.
All'urtimu
si ncilippavanu 'i ita di sputazza
e cci'a passavano cc'un lignu,
pp'ellucitari 'u bùardu."


Mastru Totò Lo Dico


Il calzolaio svolgeva un ruolo di importanza, in tempi in cui si possedeva solitamente un unico paio di scarpe, che doveva durare il più a lungo possibile. Non solo creava scarpe per tutti gli usi, ma interveniva continuamente per riparare quelle già in uso. Si cercava di salvare le calzature anche quando erano sfondate, e quindi era un continuo applicare sopra tacchi, ricucire le parti che si andavano squarciando, e in ultimo, ricorrere alla risolatura. Spesso l'interessato si toglieva in bottega la scarpa da riparare, aspettando il completamento del lavoro di riparazione.


U scarparu e i suoi apprendisti


Anticamente u scarparu, oltre ad avere la sua bottega, veniva chiamato dai contadini con famiglia numerosa per lavorare direttamente a domicilio, e pagato per la prestazione giornaliera, talvolta anche in natura, solitamente con del grano.


Attrezzi d' u scarparu

Gli attrezzi d'u scarparu
Il calzolaio operava su un basso tavolo da lavoro, ’u vancarieddu.
Gli attrezzi usati erano i furmi, le forme in ferro e in legno di varie dimensioni, un affilatissimo coltello, u trinciattul'ammolatrinciattu, il martello caratteristico, 'a tinagghia (la tenaglia), 'a liasina (la lesina), un particolare punteruolo dalla punta incurvata, che serviva a bucare il cuoio, u spau (lo spago), la colla, la cera, la pece, a siminzedda (i chiodini).



In alto a destra u fusu per la preparazione d'u lignulu

I buchi per gli occhielli venivano effettuati con una speciale pinza e gli occhielli applicati con una macchinetta apposita.
Il "piede di porco", riscaldato sul braciere, serviva per impermeabilizzare e definire i bordi della suola e dei tacchi, sciogliendo la cera solida.


Piede di porco

Lo spago per la cucitura della tomaia alla suola, subiva una preparazione per renderlo resistente: con u fusu (un attrezzo che riscaldato, scioglieva la cera), diversi fili di spago ricavati dal gomitolo, venivano filati tutti assieme ed incerati. Ne veniva fuori un unico spago molto solido, 'u lignulu, al cui capo veniva poi innestato u 'nzitu (una setola di maiale), che serviva da ago per passare lo spago nei buchi fatti con la liesina e così cucire la soletta alla tomaia.

U vancarieddu

In conclusione, erano tempi in cui ogni cosa andava fatta a mano, senza elettricità, e richiedeva tempo, fatica e tanta pazienza. E il frutto di questo investimento di cura e di lunga esperienza, erano pezzi sempre unici, piccoli capolavori.  

Vogliamo chiudere con due proverbi, di cui troviamo traccia anche nella Biblioteca delle Tradizioni Siciliane di Giuseppe Pitrè:

U scarparu sìenza scarpi,
U lignamaru sìenza porti,
U firraru sìenza grati,
cioè spesso, per ironia della sorte, chi lavora non dispone per i suoi bisogni, di ciò che per la propria attività deve fornire agli altri.

Cu avi arti, avi parti 
mentre
Cu 'nsapi l'arti chiuri a putia, 
ovvero apprendere un mestiere garantisce un ruolo nella società, mentre il cattivo artigiano perde subito la clientela.

Ringraziamenti

Le fotografie d'epoca fanno parte del fondo della Biblioteca Comunale Frate Umile di Petralia Soprana.

Gli attrezzi del falegname e del calzolaio fotografati provengono dalle collezioni di Antonio Scelfo e Domenico Gulino. Gli arnesi del fabbro sono custoditi presso la Forgia Domina a Madonnuzza. Grazie per la collaborazione (in ordine alfabetico) a Pietro Cassaniti, Rosario Ferrara, Domenico Gulino, Giancarlo Lo Mauro, Vincenzo Orlando, Mario Sabatino, Antonio Scelfo e Carmelo Spitale.

Note bibliografiche

© Testo protetto da copyright. Ogni riproduzione anche parziale è vietata

Commenti

Post più popolari