COFFI, CUFINA ED ALTRI CESTI...
Fuori nevica e da giorni, il paese si è rivestito di un manto bianco da cartolina, ma che blocca ogni attività. Le scuole sono chiuse, nelle stradelle impervie non si può circolare. A casa dei nonni, la bambina sta seduta buona buona con la coperta sulle ginocchia vicino alla conca, cioè al braciere. Qui non c'è freddo e si sta al sicuro, accanto al nonno che intreccia fini rametti e compone piano piano una grande cesta, raccontando storie di tanto tempo fa. La bambina è attenta a non distrarsi, perché ha il compito di porgere via via in ordine i rametti e di tenere fermo con il dito l'intreccio, ogni qual volta glielo chiede il nonno.
D'inverno, sino a qualche decennio fa, questo tranquillo quadretto era comune a tante case delle Petralie. Esistevano artigiani specializzati nella cesteria, ma i lavori più semplici venivano spesso realizzati in casa, nella stagione in cui le attività esterne erano impedite dal maltempo.
I materiali base erano stati però raccolti mesi prima.
U SALICI
L'elemento base, il salice (nelle due specie salix viminalis e salix alba) cresceva in varie campagne dei dintorni. Sin dall'antichità, il salice è stato simbolo di fecondità e di capacità di continuo rinnovamento, per la sua facilità di riproduzione e per la generosità con cui, una volta capitozzato, produce in primavera rametti nuovi.
L'epoca della potatura e il tipo di lavorazione iniziale dipendevano dall'uso futuro. Per ottenere cesti bianchi, il salice andava potato mentre era verde, a primavera, e occorreva non solo ripulire i rami potati dalle foglie, ma anche "munnarli", togliendo loro la scorza, direttamente sul posto. Per le ceste grezze o per ottenere un colore scuro, venivano utilizzati invece i rami ormai giallastri, che venivano potati a febbraio, e ai quali si lasciava la scorza.
Fascina di rami di salice pronti per la lavorazione Foto di Gianpiero Lodico |
I rami tagliati, in ogni modo, venivano riuniti in fascine e conservati ad asciugare per mesi, in attesa del futuro uso. Quelli più spessi si prestavano ad essere divisi longitudinalmente in due o in quattro strisce, più sottili e quindi più facili da intrecciare.
Per poter poi lavorare il salice in inverno, i rami essiccati venivano immersi alcuni giorni in acqua, per farli riammorbidire.
Nella creazione di un cesto, viene realizzato per primo il fondo, nel quale vengono inseriti a raggio i portanti, sui quali intrecciare poi le pareti laterali. La bellezza del cesto dipende anche dal contrasto di colore fra i vari tipi di salice adoperati. Per eseguire il bordo e l'eventuale manico, viene intrecciata la parte terminale degli stessi portanti.
Si potrà vedere all'opera un artigiano siciliano, CLICCANDO qui.
Collegamento dei montanti al fondo Alfredo La Placa. Blufi Foto di Cristina La Placa |
Nella creazione di un cesto, viene realizzato per primo il fondo, nel quale vengono inseriti a raggio i portanti, sui quali intrecciare poi le pareti laterali. La bellezza del cesto dipende anche dal contrasto di colore fra i vari tipi di salice adoperati. Per eseguire il bordo e l'eventuale manico, viene intrecciata la parte terminale degli stessi portanti.
Si potrà vedere all'opera un artigiano siciliano, CLICCANDO qui.
I canni sulla strada di Moncasi |
I CANNI
Nella confezione dei cesti, insieme al salice, veniva fatto uso anche delle canne, ma solo per le parti più leggere. Per il fondo, il bordo superiore e il manico, occorreva maggiore resistenza.
Panaru di salice e canne Foto G. Lodico |
La canna (Arundo donax) è un materiale versatile e che si trova ovunque, utilizzato nelle Petralie, come nel resto della Sicilia, anche per incamiciare damigiane, fare graticci per il formaggio, friscaletti, canneddi, cioé ditali per proteggere la mano del mietitore, oltre che recinzioni e coperture, o ancora per rafforzare la muratura delle abitazioni.
Per i lavori di cesteria, la canna doveva venire pulita, tagliata in strisce sottili con una falcetta e rifinita a mano con un coltello e un chiodo, e poi lasciata imbiancare al sole.
Giunchi in zona Carbonara Foto di Carmelo Spitale |
U IUNCIU
Per molti lavori di cesteria, veniva usato il giunco selvatico (Juncus effusus) raccolto nelle vicinanze dei tratti d'acqua, o nei margi, cioè nelle piccole zone umide presenti anche negli immediati pressi delle Petralie.
Lavorazione di fasceddi |
Il giunco era adoperato tipicamente per realizzare a fascedda, recipiente cilindrico di piccole dimensioni che serviva ai pastori per mettervi la ricotta o il formaggio fresco. Il termine deriva da quello latino di fiscella, che indicava proprio questo tipo di cestino con il medesimo uso.
A 'ddisa, graminacea molto diffusa, dal nome scientifico di ampelodesmos mauritanicus, serviva a realizzare legacci per l'agricoltura: usata semplice, veniva utilizzata per i tralci della vigna oppure, previo intreccio, dava origine ai liami, utilizzati per la legatura del grano e del fieno.
A 'ddisa vicino a Torre Sgadari |
U ddisalòru andava in giro a tagliare le piante che poi venivano lasciate essiccare e conservate, in attesa di essere poi bagnate, pochi giorni prima dell'uso.
Gomitolo di liami Foto G. Lodico |
La ddisa serviva anche per intrecciare zerbini, oppure per impagliare bottiglie o, come vedremo appresso, per realizzare coffe/sacchine.
Per l'aratura, era un materiale adatto alla realizzazione della cuddana con cui l'animale veniva legato al giogo.
Dalla parte più dura degli steli di ddisa, si ricavavano scope e scopini per il focolare.
C'erano cesti per tutti gli usi, strutturati per ogni particolare necessità di lavoro.
Il cesto base, di forma cilindrica, profondo e solo leggermente svasato, con o senza manici, fatto di salice e canne intrecciate, si chiamava cartedda.
Era delle dimensioni di un secchio o poco più grande, e serviva per contenere ortaggi, frutta oppure materiali vari. La parola deriva dal greco karlallos, che nel medioevo si è trasformato in kartallus.
Cartedda
Foto A. Spitale
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Era delle dimensioni di un secchio o poco più grande, e serviva per contenere ortaggi, frutta oppure materiali vari. La parola deriva dal greco karlallos, che nel medioevo si è trasformato in kartallus.
Da dove il nome dato all'artigiano cestaio: u carteddaru.
Frìscina |
Di forma analoga ma molto più grande era la frìscina, cesta della capienza di 50-60 kg, dell'altezza di circa 80 cm, da riempire di uva durante la vendemmia e da caricare sulle mule. Per questo motivo, aveva spesso una forma ovaleggiante. Il termine viene direttamente dal latino "fiscĭna". Per la sua affinità con la cartedda, in alcuni paesi della Sicilia veniva chiamata "cartidduni".
U cufinu era anch'esso una cesta profonda in salice, che serviva per il trasporto di quartare e lancedde. I cufina venivano sistemati in una o due coppie sul basto dei muli.
Il termine, che derivava dal greco "Kòfinos", indicava anche la cesta ove in casa veniva riposto il pane, avvolto in una tovaglia.
Come si può vedere nella foto appresso, si trattava di un cestino composito, di cui il coperchio si utilizzava per presentare il pane a tavola.
U panaru era un cesto munito di manico, fatto di canne e salice. La presenza del manico lo rendeva adatto al trasporto a mano di uova, ortaggi, frutta o comunque di un carico di dimensioni limitate.
Panaru Foto A. Spitale |
A ggistra deriva direttamente dal "cista" latino. Ha forma svasata, è larga e dai bordi abbastanza bassi, in modo da tenere il contenuto in ordine e ben esposto. Serviva infatti a far asciugare al sole la frutta o gli ortaggi come pomodori, fichi o mandorle. Lo stesso nome in altri paesi delle Madonie, sta ad indicare invece la fiscella per la ricotta, che nelle Petralie, come abbiamo visto, viene chiamata fascedda.
Ggistra |
U cannistru, dal termine greco "kanistron", fatto di rami di salice o di gambi di grano, o ancora di giunchi, è ancora più piatto e svasato della gistra e ha una lavorazione più elegante, ad intrecci. E' perciò adatto alla presentazione dei cibi. In particolare serve tuttora a presentare dolci (è noto il cannistru della festa dei morti a Palermo).
Cannistru Foto A. Spitale |
Il salice serviva anche ad impagliare i recipienti di vetro per proteggerli dagli urti e allo stesso tempo per preservarne il contenuto dalla temperatura esterna.
Foto G. Lodico |
A zzimmìla era una sorta di frìscina concepita per il trasporto di materiali come ad esempio lo stallatico, dalle stalle ai terreni da concimare. Il suo fondo era un portellone in legno apribile, per cui il materiale che veniva caricato nel cesto già installato sul mulo, veniva poi scaricato nel punto prescelto, con una semplice mossa e senza dover rimaneggiare il contenuto. La parola zzimmìla viene dal termine arabo "zamilah", che vuol dire sia mulo che sacco di provviste.
In altri paesi di Sicilia, con questo termine si indicano altri tipi di cesti da soma, grandi e flessibili, realizzati in palma nana e assimilabili alla coffa.
A coffa, detta anche sacchina, era una sporta flessibile con i manici, che serviva per dare la biada agli equini, ma anche per la semina a mano. Per far mangiare il mulo, i manici venivano riuniti da una corda che veniva passata al collo dell'animale. Nella semina eseguita a spagghiu, cioè spargendo con ampi gesti del braccio sul terreno, i semi venivano prelevati dalla coffa/sacchina tenuta alla cinta. Neanche a dirlo, il termine coffa viene dall'arabo kofah.
A sacchina |
Nella maggior parte della Sicilia, la coffa era realizzata con la curina cioè la treccia di palma nana (chamaerops humilis) detta in dialetto giummarra o scupazzu, e utilizzata anche per fare copricapi e scope.
Ma nelle località di montagna come le Petralie, in cui il clima è troppo freddo per tale pianta, a meno che la coffa/sacchina non venisse comprata da vardeddari di passaggio, o in occasione delle fiere e dei mercati, veniva fabbricata in casa con la ddisa. Oppure ancora veniva realizzata dalle donne con della tela pesante detta alona, che serviva anche per fabbricare l'utri, cioè l'otre per il trasporto del mosto, oppure capi di vestiario protettivi come il pettorale e il rivestimento per il braccio del mietitore, o ancora il gambale delle scarpe quazate. Il nome fa riferimento alla tela Olona, resistente tela di canapa dalle origini molte antiche e usata tradizionalmente in marina. Ancora oggi le vele delle navi della Amerigo Vespucci sono fatte di questa stoffa notevolmente solida.
Sacchina in ddisa per la semina Foto G. Lodico |
La fibra di base della tela tessuta in casa poteva essere la canapa o la lana. Sempre in casa, venivano tessute e cucite delle sacchine in lino cerato (con olio di lino), che servivano da tascapane e venivano portate a tracolla. La tela alona era il materiale usato anche per realizzare i visazzi, cioè le sporte doppie che ricadevano da un lato e dall'altro del dorso del mulo.
Per confezionare sia coffe/sacchine che stuoie, e per impagliare fiaschi e damigiane, si usavano nelle Petralie anche le foglie più dure di un'altra pianta che cresce spontanea vicino ai punti umidi, e che si trova frequentemente nelle Madonie, la buda, (detta anche erba sala, tifa o mazzasorda), pianta dal nome scientifico di Typha latifolia, conosciuta anche come cannedda.
A Buda
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Le foglie servivano anche per turare le commessure fra le doghe delle botti di legno, ed era stato coniato un apposito verbo in dialetto per indicare questa operazione: abbudàri. Un altro nome caratteristico dato in Sicilia a questo vegetale è quello di cannila di picuraru, come spiegato qui sotto nel Nuovo Dizionario siciliano-italiano di Vincenzo Mortillaro, marchese di Villarena (1838).
Anticamente, gli schidioni (spiti) della pianta servivano anche per la confezione dei maccarruneddi, ottenuti arrotolandovi strisce sottili di sfoglia. Una volta sfarinati, servivano anche come emostatico sulle ferite.
Luciano Messineo intento a realizzare una frìscina
davanti alla sua bottega
in via Amari a Petralia Soprana negli anni 80
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Foto di Marcello Lo Mauro Petralia Soprana anni 70-80 |
Sono diversi i modi di dire che si ispirano ai cesti:
E' na fascedda sfasciata (si dice di persona grossa con tanti malanni).
Dari a coffa, significa rifiutare una proposta di fidanzamento o licenziare.
Avirini ppi coffa e ppi cufina (averne in grande abbondanza, o anche averne abbastanza)
Tirare acqua cu lu panaru (fare una fatica inutile o con mezzi inadeguati).
Cu fa un panaru, fa cientu carteddi (Una volta riuscita l'impresa più difficile, tutte le altre diventano semplici)
Non a caso, ai vecchi tempi, le donne avevano un bel portamento... |
Dopo essere stati utilizzati per millenni con forme e lavorazioni costanti, i cesti della tradizione sono stati integralmente sostituiti, nel rapido volgere di qualche decennio, dai recipienti in plastica.
Oggi però si coglie appieno il loro pregio decorativo. Ma al di là del richiamo turistico, o dell'uso in arredamento, ggistre, carteddi, coffi e cufini, sono per tutti oggetti di grande fascino, per il retaggio di secoli di lavoro manuale di cui sono muti portatori.
Note bibliografiche:
- Roberto Sottile, Massimo Genchi, Lessico della cultura dialettale delle Madonie. 1. L'alimentazione, Centro Studi Filologici, 2010
- Roberto Sottile, Massimo Genchi, Lessico della cultura dialettale delle Madonie. 2. Voci di saggio, Centro Studi Filologici, 2011
- Giuseppe La Placa, "Glossario" in Un mondo che scompare volume II, Edizioni Arianna 2013
- Influenza delle lingue sul dialetto
- Giuseppe Puma, Arti e Mestieri, U Viddanu, 2012
- Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino,1789, Palermoo
- Paolo M. Guarrera, Le piante nelle tradizioni popolari della Sicilia
- Filippo Parlatore, Flora palermitana, ossia descrizione delle piante che crescono spontanee nella valle di Palermo, 1845, Palermo
Foto Carmelo Spitale |
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